venerdì 25 dicembre 2009

Buone Feste!!!



Non prima di aver ricordato a tutti gli appassionati la pur non particolarmente visibile eclissi parziale di Luna del prossimo 31 dicembre, ci congediamo per qualche giorno di (meritato!!!) riposo. A tutti i più sinceri auguri di buone feste e un ottimo 2010.


cieli sereni

sabato 19 dicembre 2009

Lo scontro che "accese" il buco nero


Grazie ai progressi della ricerca astronomica degli ultimi decenni è stato possibile stabilire come al centro delle galassie siano ospitati buchi neri la cui massa è dell’ordine dei milioni o anche miliardi di masse solari. Il legame fra buco nero centrale e galassia ospite pare essere molto forte, tanto che secondo alcuni modelli la massa del buco nero è strettamente correlata ai processi evolutivi cui la galassia è andata incontro nel corso di miliardi di anni. I buchi neri centrali accrescono la propria massa divorando grandi quantità di materia catturata dal loro intenso campo gravitazionale. I gas e le polveri prima di precipitare nel buco nero si dispongono su un disco detto di accrescimento lungo il quale, spiraleggiando, si riscaldano. Il processo libera enormi quantità di energia, e parte della materia viene espulsa lungo due getti in direzioni opposte. L’intensità del processo è strettamente correlata alla quantità di materia disponibile: maggiore è la quantità di gas che precipita nel buco nero tanto più intensa sarà l’energia emessa. Lo studio dei nuclei galattici attivi (AGN) è particolarmente importante perché fornisce fondamentali informazioni sul legame esistente fra buchi neri centrali e galassie ospiti. A tal scopo un gruppo internazionale di astronomi ha utilizzato tre dei migliori strumenti disponibili per le osservazioni per studiare una coppia di galassie interagenti, NGC 6872 e IC 4970 distanti circa 180 milioni di anni luce nella costellazione australe del Pavone. Combinando le osservazioni dei telescopi spaziali Chandra in banda X e Spitzer nell’infrarosso e quelle del VLT nella regione del visibile dello spettro elettromagnetico, gli astronomi hanno ottenuto l’immagine nella quale è chiaramente visibile il processo di fusione in atto fra le due galassie. Delle due galassie IC 4970 è quella visibile in alto a sinistra ed era già noto che al suo interno vi fosse un nucleo particolarmente attivo. Anzi, la grande quantità di energia emessa dal buco nero centrale non riusciva a essere spiegata considerando il solo gas presente in IC 4970. Il “mistero” trova spiegazione considerando proprio il processo di fusione in atto fra le due galassie. L’attrazione gravitazionale di IC 4970 ha strappato grandi quantità di gas a NGC 6872 ed è proprio questa materia che contribuisce in maniera determinante all’attività del buco nero.

Credit: X-ray: NASA/CXC/SAO/M.Machacek; Optical: ESO/VLT; Infrared: NASA/JPL/Caltech

mercoledì 16 dicembre 2009

Gli auguri di Hubble


In tempo per le ormai prossime festività natalizie i ricercatori della NASA hanno rilasciato una splendida immagine dell'ammasso R136 situato nella Grande Nube di Magellano (LMG, Large magellanic galaxy) all'interno della vasta regione di formazione stellare nota come 30 Doradus. La Grande Nube di Magellano è, insiema alla Piccola Nube di Magellano (SMG), una galassia satellite della Via Lattea. Visibili dai cieli astruali, le due piccole galassie sono sede di intensi processi di formazione stellare innescati probabilmente dall'interazione gravitazionale con la nostra galassia. La regione, ripresa con la Wide Field Camera 3 (WFC3) recentemente installata sul telescopio spaziale Hubble, si estende per circa 100 anni luce. Al suo interno sono visibili numerose giovani e calde stelle di colore blu che si dispongono in una peculiare forma che sembra ricordarci quella di un albero di natale. Queste stelle hanno massa pari a decine di volte quella del Sole e sono perciò destinate a esplodere come supernovae nel giro di qualche decina di milioni di anni. Intanto però, l'intensa radiazione che emettono sta scavando e modellando la nube di gas in cui sono immerse, provocando delle onde d'urto che innescheranno a loro volta nuovi processi di formazione stellare.

Credit: NASA, ESA, F. Paresce (INAF-IASF, Bologna, Italy), R. O’Connell (University of Virginia, Charlottesville), and the Wide Field Camera 3 Science Oversight Committee

martedì 15 dicembre 2009

Stelle elettrodeboli


Autore: Michele Ferrara


Nello zoo degli oggetti astrofisici si affaccia un nuovo oggetto: la stella elettrodebole. E' questo il termine utilizzato da un team di ricercatori guidati da Glenn Starkman, professore di Fisica alla Case Western Reserve University, per definire un particolare stadio di transizione che una stella massiccia oltre due volte il Sole può attraversare prima di trasformarsi in un buco nero al termine della sua esistenza. Un'accurata descrizione teorica della struttura delle stelle elettrodeboli è contenuta in un lavoro, sottoposto dal gruppo di Starkman alla Physical Review Letters, nel quale si afferma che nel momento in cui una stella massiccia prende a collassare verso lo stadio di buco nero, infrangendo dunque la resistenza opposta dalla pressione dei neutroni ormai schiacciati gli uni contro gli altri, raggiunge una soglia in cui i quark, liberati dalla rottura dei neutroni e rappresentanti di una delle due famiglie di particelle elementari che compongono tutta la materia, iniziano a convertirsi in leptoni, l'altra famiglia di particelle che forma la materia e che include elettroni e neutrini. La capacità di questi ultimi di trasportare energia è maggiore rispetto a quella delle particelle originarie e accade così che nel nucleo del costituendo buco nero si genera un nuovo tipo di pressione che sostituisce quella tipica della nucleosintesi che alimenta le stelle durante la loro vita. Il collasso stellare pertanto si ferma e questa fase può durare anche più di 10 milioni di anni, dopo di che, se nel frattempo l'astro non è riuscito a perdere sufficiente massa proprio attraverso la nuova forma di radiazione, il collasso riprenderà rapidamente fino alla creazione di un buco nero. Stante il lungo periodo della fase di stella elettrodebole e considerando che elettroni e neutrini trasportano una quantità di energia misurabile, Starkman e colleghi ipotizzano la possibilità di rivelare questo particolare tipo di stelle, anche se distinguerle chiaramente da altri oggetti non sarà facile. La sfida è lanciata.
Credit: CWRU, AAAS

mercoledì 9 dicembre 2009

Hubble fotografa l'universo neonato


Installata dagli astronauti dello Shuttle durante la missione di servizio al telescopio spaziale Hubble dello scorso maggio, la Wide Field Camera 3 (WFC3) continua a dare prova delle sue straordinarie capacità nell'osservazione e nello studio di oggetti estremamente deboli. Durante una sessione osservativa di durata complessiva di 173mila secondi, la WFC3 ha ripreso galassie distanti poco più di 12 miliardi di anni luce che popolvano, dunque, l'universo in un'epoca successiva al big bang di soli 900 milioni di anni. Si tratta di un'immagine "profonda" ottenuta nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Questo perchè la radiazione emessa dalle giovani stelle nel visibile e nell'ultravioletto ha subito, durante il suo lungo viaggio, un considerevole spostamento verso l'infrarosso a causa dell'espansione dell'universo. Immagini come questa ottenuta dalla WFC3 contribuiscono allo studio dei meccanismi che hanno portato alla formazione delle galassie nell'universo primordiale e allo loro successiva evoluzione.

Credit: NASA, ESA, G. Illingworth (UCO/Lick Observatory and the University of California, Santa Cruz), R. Bouwens (UCO/Lick Observatory and Leiden University) and the HUDF09 Team

Le megastelle esistono!

Autore: Michele Ferrara

Che massa può raggiungere una stella di Sequenza Principale? Almeno 200 masse solari! Ebbene sì. Dopo anni di studi alla ricerca di megastelle, dopo la scoperta di possibili candidati che si sono il più delle volte rivelati non singole stelle bensì stelle multiple, dopo che sembrava accertata l'inesistenza di astri oltre le 140 masse solari, limite oltre il quale (ma anche al di sotto del quale) le stelle perdono enormi quantità di materia, trasformandosi rapidamente in astri più normali, ecco che i risultati di uno studio accurato sulla supernova SN2007bi, pubblicati su Nature del 3 dicembre scorso, dimostrano che la stella progenitrice di quell'esplosione aveva la bellezza di circa 200 masse solari. Che la SN2007bi dovesse avere un progenitore particolarmente massiccio lo si era già sospettato per via della straordinaria luminosità raggiunta (50-100 volte più di una normale supernova), che aveva reso possibile studiarla per un periodo insolitamente lungo: un paio d'anni. Inoltre, vi erano teorie che da decenni prevedevano l'esistenza di megastelle. Quale miglior candidato? A studiarlo con i più potenti telescopi disponibili è stato un team internazionale di ricercatori guidato da Avishay Gal-Yam (Weizmann Institute of Science, Israel), team del quale ha fatto parte anche l'italiano Paolo Mazzali (in forza al Max-Planck Institute for Astrophysics). I risultati della ricerca sono molto interessanti perché svelano che le supernovae generate da oggetti oltre le 140-150 masse solari hanno un innesco totalmente diverso dalle supernovae per noi normali: in queste ultime, i processi di fusione termonucleare procedono fino alla sintesi del ferro, elemento che invece di concorrere alla produzione di elementi più pesanti e quindi nuova energia per sostenere la compressione della stella, richiede a sua volta energia, portando la stella al collasso. Nel progenitore del nuovo tipo di supernova, invece, quando la sintesi degli elementi porta il nucleo ad essere costituito prevalentemente di ossigeno, l'enorme pressione innesca un rilascio di fotoni estremamente energetici, che favoriscono la creazione di coppie elettroni/positroni. La successiva annichilazione delle due particelle produce uno scompenso nella pressione che dal nucleo sale verso gli strati esterni della megastella, che d'improvviso collassa innescando un'altrettanto improvvisa fusione dell'ossigeno che produce una tale energia da far esplodere totalmente l'astro, senza che rimanga nulla al suo posto, oltre alla materia eiettata in rapidissima espansione. Dunque, né buco nero né pulsar restano a testimonianza del collasso.Nell'universo attuale le megastelle dovrebbero essere molto rare, ma in quello primordiale rappresentavano probabilmente la popolazione più numerosa e con la loro esplosione hanno avviato l'arricchimento metallico del mezzo interstellare.
Credit: NASA/CXC/NCSU/S.Reynolds et al

mercoledì 2 dicembre 2009

Iris Nebula: la polvere non è mai stata così bella!

Sir William Herschel è stato uno dei più assidui osservatori del cielo. Oltre alla scoperta del pianeta Urano, a lui si devono le osservazioni di decine di oggetti celesti che ancora oggi continuano a essere "preda" di appassionati di tutto il mondo. Fra le nebulose da lui individuate c'è NGC 7023, nota come Iris Nebula. Osservata per la prima volta nel 1794, dista circa 1400 anni luce nella costellazione di Cefeo. Le sue dimensioni sono stimate in circa 6 anni luce. Si tratta di una nebulosa a riflessione: la luce che osserviamo è quella di una stella vicina, denominata HD 200775, diffusa dalle particelle di polveri, di dimensioni da 10 a 100 volte più piccole dei granelli di polvere che si depositano nelle nostre case, di cui è ricca la Iris Nebula. Al contrario, le nebulose a emissione emettono la radiazione luminosa quando le particelle di gas che le compongono vengono eccitate. NGC 7023 è una nebulosa ricca di polveri. E se le polveri interstellari sono generalmente molto mal viste dagli astronomi in quanto impediscono di osservare gli oggetti più distanti, nel caso delle nebulose a riflessione, come la Iris Nebula, possono darci importanti informazioni sui meccanismi di formazione stellare. Normalmente le nebulose a riflessione tendono ad apparirci di colore blu. Nel caso della Iris Nebula il colore dominante è però il rosso probabilmente dovuto alla presenza di una qualche sostanza, probabilmente un idrocarburo. Le splendide immagini dell'area circostante NGC 7023 e di una regione al suo interno sono state ottenute dal telescopio spaziale Hubble e consentiranno di determinare meglio la composizione della Iris Nebula.

Credit: NASA/ESA