Il ricordo sbiadisce come le immagini confuse che le televisioni di tutto il mondo trasmettevano tenendo incollati centinaia di milioni di persone. Eppure si trattò di un evento epocale, uno dei massini successi della scienza e della tecnica. Sono trascorsi ormai 40 anni da quel luglio del 1969 quando Neil Armstrong lasciò la sua orma sul polveroso suolo lunare. Dopo le missioni Apollo l'interesse per il nostro satellite è scemato e solo negli ultimi anni le agenzie spaziali di numerosi paesi hanno ripreso a inviare sonde automatiche per pianificare il ritorno dell'uomo sulla Luna entro il 2020. Per celebrare l'evento di 40 anni fa e per fare il punto sulle nostre conoscenze sulla Luna, la rivista telematica "L'Astrofilo" ha predisposto un numero speciale interamente dedicato al nostro satellite. Il numero è scaricabile, gratuitamente come tutti gli altri numeri della rivista, collegandosi al sito www.astropublishing.com
martedì 30 giugno 2009
lunedì 29 giugno 2009
Gusci di gas attorno a giovani galassie
Circa 2 miliardi di anni dopo il big bang, nell'universo erano presenti enormi bolle di gas, principalmente idrogeno, estese per centinaia di migliaia di anni luce e chiamate "Lyman - alpha blobs" a causa della particolare radiazione in cui sono visibili. Queste gigantesche bolle di gas, recentemente individuate grazie a osservazioni condotte sia dallo spazio che dalla Terra, traggono l'energia che le rende visibili dal riscaldamento del gas di cui sono costituite. Quale però l'origine del riscaldamento era fino a ora un mistero, così come poco chiaro era il ruolo giocato nei processi evolutivi del giovane universo che condussero alla formazione delle galassie e dei buchi neri ospitati nel loro nucleo. Le osservazioni condotte col telescopio spaziale Chandra nella regione X dello spettro elettromagnetico possono però contribuire a trovare le risposte cercate dagli astronomi. Chandra ha, infatti, osservato 29 di queste bolle scoprendo che l'energia necessaria a riscaldare il gas e renderlo visibile può essere prodotta da buchi neri in rapido accrescimento e da regioni di formazione stellare individuati al loro interno. Nell'immagine a fianco, composizione di riprese ottenute da vari telescopi, si può osservare in giallo una bolla di gas (telescopio Subaru), in bianco (HST) e in rosso (Spitzer) una galassia, mentre in blu le riprese di Chandra in banda X degli effetti del rapido accrescimento di materia di un buco nero. La situazione è anche artisticamente rappresentata nell'immagine a lato. Enormi quantità di energia vengono emesse lungo due getti dal disco di accrescimento che circonda il buco nero e, secondo i ricercatori, è proprio questa la fonte di energia in grado di riscaldare e far brillare la bolla di gas. I modelli teorici di formazione delle galassie prevedono che queste nascono dal collasso, sotto l'azione della gravità, del gas contenuto nelle bolle, collasso che prosegue fin quando l'energia sprigionata dall'accrescimento dei buchi neri e dai venti stellari emessi da giovani stelle in formazione non sono in grado di arrestarlo.
Credit: Left panel: X-ray (NASA/CXC/Durham Univ./D.Alexander et al.); Optical (NASA/ESA/STScI/IoA/S.Chapman et al.); Lyman-alpha Optical (NAOJ/Subaru/Tohoku Univ./T.Hayashino et al.); Infrared (NASA/JPL-Caltech/Durham Univ./J.Geach et al.); Right, Illustration: NASA/CXC/M.Weiss
venerdì 26 giugno 2009
L'oceano di Encelado
Nuove misure condotte dal Cosmic Dust Analyzer (CDA) a bordo della sonda Cassini, che da ormai 5 anni sta studiando da vicino Saturno e il suo sistema di satelliti e anelli, sembrano confermare l'ipotesi della presenza di un vasto oceano di acqua liquida al di sotto dello spesso strato di ghiaccio che ricopre la superficie di Encelado. Pur con un diametro di appena 500 chilometri, Encelado è una delle lune di Saturno sui cui si sta concentrando l'attenzione dei ricercatori. Si tratta di un mondo che, per le sue caratteristiche chimico fisiche e per la sua attività geologica, pare possedere ambienti potenzialmente in grado di ospitare la vita. Orbitando a una distanza da Saturno di circa 283mila chilometri, Encelado è ritenuto la fonte che continuamente rifornisce di minuscole particelle ghiacciate l'anello E, il più esteso fra gli anelli, che si estende in una regione di spazio compresa fra 180mila e 2 milioni di chilometri dal pianeta. Nelle regioni polari di Encelado sono stati individuati potenti getti, del tutto simili a geyser terrestri, che espellono, grazie a meccanismi geologici per la verità ancora non ben compresi, grandi quantità di particelle ghiacciate che, disperdendosi nello spazio, vanno a rifornire l'anello E. Da tempo, inoltre si suppone che al di sotto dello spesso strato di ghiaccio che ricopre la superficie del satellite possa trovarsi un vasto oceano di acqua liquida, in maniera del tutto simile a quanto si ritiene si verifichi anche su Europa, uno dei satelliti di Giove. Le misure condotte dal CDA sulle particelle di ghiaccio che compongono l'anello E paiono oggi confermare questa ipotesi. L'analisi dei dati raccolti dalla sonda ha, infatti, messo in evidenza come le particelle di ghiaccio che compongono l'anello E siano ricche di sodio. Poichè solo l'acqua liquida può contenere significative quantità di sali disciolti, ecco che i ricercatori pensano che queste particelle non possano che provenire da un oceano sotterraneo di Encelado. E dove c'è acqua liquida per giunta in presenza di fonti di energia in grado di produrre addirittura dei geyser ...
Credit: NASA/JPL/Space Science Institute
lunedì 22 giugno 2009
La prima immagine di Herschel
Dopo poco più di un mese dal lancio, il telescopio spaziale Herschel dell'ESA ha ripreso la sua prima immagine. Si tratta della famosa M51, una galassia distante circa 35 milioni di anni luce nella costellazione dei Cani da Caccia. Scoperta nel 1773 dall'astronomo francese Charles Messier, è stata la prima galassia di cui si è riusciti a individuare la struttura a spirale. Herschel è il più grande telescopio spaziale a operare nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Già da questa prima immagine si intuiscono le grandi potenzialità, ben superiori a quelle di Spitzer della NASA, l'altro telescopio spaziale infrarosso. Attualmente Herschel è ancora in viaggio verso la sua destinazione finale, il punto lagrangiano L2, uno dei punti dello spazio in cui l'attrazione gravitazionale del Sole e della Terra si bilanciano perfettamente. L'immagine è stata una sorta di test che i tecnici dell'ESA hanno voluto effettuare sugli strumenti di bordo del telescopio subito dopo che era stato dispiegato lo schermo protettivo che consentirà a Herschel di operare a temperature estremamente basse, così da non intrerferire con le riprese nell'infrarosso.
Credit: ESA & PACS Consortium
venerdì 19 giugno 2009
LRO e LCROSS in viaggio verso la Luna
Con un lancio perfettemante riuscito alle ore 5,32 di ieri pomeriggio ora di Cape Canaveral sono iniziate le missione delle due sonde americane LRO (Lunar reconnaissance orbiter) e LCROSS (Lunar crater observation and sensing satellite) che hanno come obiettivo lo studio della Luna. Con questo lancio si può dire ufficialmente partita la lunga marcia di avvicinamento che, secondo quanto previsto dai programmi della NASA, porterà l'uomo nuovamente sulla Luna entro il 2020. Fatta eccezione per la Lunar Prospector che operò a cavallo degli anni 1998- 1999, era dall'ultima missione del programma Apollo, ben 36 anni fa, che la Luna non veniva visitata da sonde della NASA. Subito dopo il lancio di ieri sera, LRO e LCROSS sono state parcheggiate in un'orbita provvisoria attorno alla Terra ma a breve, con l'accensione dell'ultimo stadio del razzo, inizieranno ad avvicianrsi alla Luna che raggiungeranno in meno di 5 giorni. A quel punto le due sonde si separeranno. LRO si immettera in un'orbita polare molto stretta per iniziare le attività programmate di ripresa e mappatura della superficie lunare. LCROSS, invece, ancora agganciata allo stadio del razzio si collocherà in un'orbita più larga che completerà in 37 giorni. Il momento più atteso della missione si avrà, però, in una data ancora da definire compresa fra il 7 e l'11 ottobre prossimi quando LCROSS sarà fatta precipitare in un cratere in prossimità del polo lunare. In questo modo si prevede che verranno sollevate qualche centiniaia di tonnellate di polvere e detriti dalla superficie lunare che saranno visibili e osservati da uno schieramento senza precedenti di telescopi sulla Terra, dal telescopio spaziale Hubble e dalla stessa LRO. L'analisi della composizione chimica delle polveri sollevata permetterà, tra l'altro, di risolvere l'annosa questione della possibile presenza di acqua ghiacciata nei crateri posti in prossimità dei poli, lì dove non arriva mai la luce del Sole.
Credit: NASA
martedì 16 giugno 2009
Il primo pianeta extragalattico
La scoperta di un pianeta extrasolare ormai non fa quasi più notizia. Sono, infatti, più di 360 quelli scoperti in orbita attorno a stelle della nostra galassia. Quello scoperto da un gruppo internazionale di astronomi, fra cui gli italiani Francesco De Paolis e Gabriele Ingrosso, dell’università del Salento, e Sebastiano Calchi Novati, dell'università di Salerno, è però davvero eccezionale. Non tanto per le sue ragguardevoli dimensioni, almeno 7 volte la massa di Giove, né per il fatto di orbitare attorno a una stella tutto sommato abbastanza piccola, con una massa circa metà di quella del Sole. Il pianeta di cui gli astronomi descrivono la scoperta nel lavoro pubblicato sulla rivista britannica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society è però quello più distante di cui si ha notizia. Si trova, infatti, nella galassia di Andromeda a una distanza di circa 2,5 milioni di anni luce. Mai fino ad ora era stato scoperto un pianeta fuori della Via Lattea ed anzi quasi tutti quelli noti si trovano in una raggio inferiore a mille anni luce. Naturalmente, gli astronomi non hanno direttamente visto il nuovo pianeta. Troppo grande la distanza per permettere una simile osservazione. La scoperta è stata, invece, il frutto di un lungo lavoro di calcolo su modelli matematici che descrivono le variazioni di luminosità di stelle distanti a causa del fenomeno noto come microlensing gravitazionale. Si tratta di un effetto previsto nella relatività di Einstein per cui la luce di una stella distante viene distorta e amplificata dalla presenza di un oggetto massiccio, come una stella o un pianeta, interposti lungo la linea di vista. Dall’analisi della variazione di luminosità e grazie ai modelli che descrivono il fenomeno è possibile risalire alla presenza e alle caratteristiche dell’oggetto responsabile del microlensing e di cui altrimenti sarebbe impossibile rilevare la presenza. Gli stessi autori della scoperta sottolineano che proprio la natura del loro lavoro non può dare la certezza della scoperta del prima pianeta extragalattico. Si tratta infatti di uno studio probabilistico su un fenomeno che, non potendo essere ripetuto, non può essere confermato. Quello che i ricercatori danno è una stima probabilistica della natura extragalattica del corpo celeste responsabile dell’effetto osservato, e si tratta di una probabilità superiore al 90%. Quanto basta per far sperare di aver compiuto un ulteriore importante passo nello studio dei pianeti extrasolari: la scoperta del primo pianeta in un’altra galassia.
Credit: NASA
Credit: NASA
mercoledì 10 giugno 2009
Un resto di supernova dalla strana forma
A circa 190mila anni luce di distanza, nella Piccola Nube di Magellano (Small Magellanic Cloud, SMC), una delle due galassie satellite della Via Lattea osservate da Magellano nei cieli australi durante i suoi viaggi, è stato individuato dal telescopio spaziale Chandra un resto di supernova dalla forma peculiare. Nell'immagine, in cui sono sovrapposte le osservazioni in banda X di Chandra (in colore viola) con quelle infrarosse dell'altro telescopio spaziale Spitzer (in colore verde e rosso), è chiaramente visibile la forma asimmetrica del resto di supernova, denominato SNR 0104-72.3 (o semplicemente SNR0104). In particolare sono presenti due lobi, uno diretto in alto a destra e l'altro in basso a sinistra. L'analisi spettroscopica di SNR 0104 ha evidenziato un'abbondante presenza di ferro, il che fa pensare che si tratti di ciò che resta dell'esplosione di una supernova di tipo Ia. Le supernovae di questo tipo si originano dall'esplosione di nane bianche, lo stadio finale di stelle di tipo solare, che, strappando materia a una compagna in un sistema binario, raggiungono una massa tale da riuscire a sostenere il loro stesso peso. Si verifica così un'esplosione termonucleare e il repentino apparire di una supernova di tipo Ia. Poichè il meccanismo che innesca l'esplosione è lo stesso, le supernovae di tipo Ia hanno tutte la stessa luminosità intrinseca il che le rende estremamente utili nella determinazione delle distanze cosmologiche, potendo essere usate come candele standard. Nel caso di SNR 0104 la presenza dei due lobi può essere spiegata o con un'asimmetria intrinseca all'esplosione stessa o con l'interazione con il mezzo interstellare circostante che potrebbe presentare zone con densità di materia diverse e quindi capaci di "frenare" in maniera differenziata il gas in espansione. La presenza nelle vicinanze di SNR 0104 di una stella massiccia e di gusci concentrici di gas e polveri fa pensare anche che l'esplosione possa essersi verificata in una regione di formazione stellare. In questo caso la supernova da cui si è formata SNR 0104 potrebbe appartenere a una sottoclasse recentemente individuata e denominata "prompt" Ia, supernovae che si originano dal collasso di stelle più giovani e massicce della media.
Credit: X-ray (NASA/CXC/Penn State/S.Park & J.Lee); IR (NASA/JPL-Caltech)
domenica 7 giugno 2009
Un ammasso stranamente normale
Le condizione che le stelle e il gas sperimentano in prossimità del centro galattico, lì dove risiede un buco nero supermassiccio di almeno 4 milioni di masse solari, non sono propriamente piacevoli. L'intensa attrazione gravitazionale esercitata dal buco nero attira immense quantità di materia verso un viaggio senza ritorno, mentre le stelle che vi si avvicinano troppo vengono distorte e smembrate priva di venire inghiottite. Eppure, già da qualche tempo è noto che in un ambiente così estremo si può assistere ai processi di formazione stellare che conducono alla nascita di nuove e luminose stelle. Gli astronomi erano però convinti che, proprio a causa delle particolari condizioni ambientali e sotto l'azione della gravità che in qualche modo interferisce con i meccanismi che conducono alla contrazione del gas interstellare e alla formazione di una nuova stella, gli ammassi neonati potessero avere caratteristiche diverse da quelle che si osservano negli ammassi situati a distanza di sicurezza in regioni più remote della Galassia. Ma osservando dai cieli del Cile con il Very Large Telescope dell'ESO l'Ammasso del Sagittario, un giovanissimo ammasso posto proprio in prossimità del buco nero centrale della Via Lattea, gli astronomi si sono accorti che il rapporto fra il numero di stelle massicce e quello di stelle di massa più piccola è del tutto simile a quello degli ammassi "normali". Di fatto, le condizioni ambientali davvero estreme paiono non influenzare i meccanismi di formazione stellare. L'Ammasso del Sagittario dista circa 25mila anni luce, ed è composto da circa un migliaio di stelle di età non superiore ai 2,5 milioni di anni. Le dimensioni dell'ammasso sono di circa 3 anni luce e la sua massa è di circa 30mila masse solari.
Credit: ESO/P. Espinoza
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