venerdì 25 dicembre 2009

Buone Feste!!!



Non prima di aver ricordato a tutti gli appassionati la pur non particolarmente visibile eclissi parziale di Luna del prossimo 31 dicembre, ci congediamo per qualche giorno di (meritato!!!) riposo. A tutti i più sinceri auguri di buone feste e un ottimo 2010.


cieli sereni

sabato 19 dicembre 2009

Lo scontro che "accese" il buco nero


Grazie ai progressi della ricerca astronomica degli ultimi decenni è stato possibile stabilire come al centro delle galassie siano ospitati buchi neri la cui massa è dell’ordine dei milioni o anche miliardi di masse solari. Il legame fra buco nero centrale e galassia ospite pare essere molto forte, tanto che secondo alcuni modelli la massa del buco nero è strettamente correlata ai processi evolutivi cui la galassia è andata incontro nel corso di miliardi di anni. I buchi neri centrali accrescono la propria massa divorando grandi quantità di materia catturata dal loro intenso campo gravitazionale. I gas e le polveri prima di precipitare nel buco nero si dispongono su un disco detto di accrescimento lungo il quale, spiraleggiando, si riscaldano. Il processo libera enormi quantità di energia, e parte della materia viene espulsa lungo due getti in direzioni opposte. L’intensità del processo è strettamente correlata alla quantità di materia disponibile: maggiore è la quantità di gas che precipita nel buco nero tanto più intensa sarà l’energia emessa. Lo studio dei nuclei galattici attivi (AGN) è particolarmente importante perché fornisce fondamentali informazioni sul legame esistente fra buchi neri centrali e galassie ospiti. A tal scopo un gruppo internazionale di astronomi ha utilizzato tre dei migliori strumenti disponibili per le osservazioni per studiare una coppia di galassie interagenti, NGC 6872 e IC 4970 distanti circa 180 milioni di anni luce nella costellazione australe del Pavone. Combinando le osservazioni dei telescopi spaziali Chandra in banda X e Spitzer nell’infrarosso e quelle del VLT nella regione del visibile dello spettro elettromagnetico, gli astronomi hanno ottenuto l’immagine nella quale è chiaramente visibile il processo di fusione in atto fra le due galassie. Delle due galassie IC 4970 è quella visibile in alto a sinistra ed era già noto che al suo interno vi fosse un nucleo particolarmente attivo. Anzi, la grande quantità di energia emessa dal buco nero centrale non riusciva a essere spiegata considerando il solo gas presente in IC 4970. Il “mistero” trova spiegazione considerando proprio il processo di fusione in atto fra le due galassie. L’attrazione gravitazionale di IC 4970 ha strappato grandi quantità di gas a NGC 6872 ed è proprio questa materia che contribuisce in maniera determinante all’attività del buco nero.

Credit: X-ray: NASA/CXC/SAO/M.Machacek; Optical: ESO/VLT; Infrared: NASA/JPL/Caltech

mercoledì 16 dicembre 2009

Gli auguri di Hubble


In tempo per le ormai prossime festività natalizie i ricercatori della NASA hanno rilasciato una splendida immagine dell'ammasso R136 situato nella Grande Nube di Magellano (LMG, Large magellanic galaxy) all'interno della vasta regione di formazione stellare nota come 30 Doradus. La Grande Nube di Magellano è, insiema alla Piccola Nube di Magellano (SMG), una galassia satellite della Via Lattea. Visibili dai cieli astruali, le due piccole galassie sono sede di intensi processi di formazione stellare innescati probabilmente dall'interazione gravitazionale con la nostra galassia. La regione, ripresa con la Wide Field Camera 3 (WFC3) recentemente installata sul telescopio spaziale Hubble, si estende per circa 100 anni luce. Al suo interno sono visibili numerose giovani e calde stelle di colore blu che si dispongono in una peculiare forma che sembra ricordarci quella di un albero di natale. Queste stelle hanno massa pari a decine di volte quella del Sole e sono perciò destinate a esplodere come supernovae nel giro di qualche decina di milioni di anni. Intanto però, l'intensa radiazione che emettono sta scavando e modellando la nube di gas in cui sono immerse, provocando delle onde d'urto che innescheranno a loro volta nuovi processi di formazione stellare.

Credit: NASA, ESA, F. Paresce (INAF-IASF, Bologna, Italy), R. O’Connell (University of Virginia, Charlottesville), and the Wide Field Camera 3 Science Oversight Committee

martedì 15 dicembre 2009

Stelle elettrodeboli


Autore: Michele Ferrara


Nello zoo degli oggetti astrofisici si affaccia un nuovo oggetto: la stella elettrodebole. E' questo il termine utilizzato da un team di ricercatori guidati da Glenn Starkman, professore di Fisica alla Case Western Reserve University, per definire un particolare stadio di transizione che una stella massiccia oltre due volte il Sole può attraversare prima di trasformarsi in un buco nero al termine della sua esistenza. Un'accurata descrizione teorica della struttura delle stelle elettrodeboli è contenuta in un lavoro, sottoposto dal gruppo di Starkman alla Physical Review Letters, nel quale si afferma che nel momento in cui una stella massiccia prende a collassare verso lo stadio di buco nero, infrangendo dunque la resistenza opposta dalla pressione dei neutroni ormai schiacciati gli uni contro gli altri, raggiunge una soglia in cui i quark, liberati dalla rottura dei neutroni e rappresentanti di una delle due famiglie di particelle elementari che compongono tutta la materia, iniziano a convertirsi in leptoni, l'altra famiglia di particelle che forma la materia e che include elettroni e neutrini. La capacità di questi ultimi di trasportare energia è maggiore rispetto a quella delle particelle originarie e accade così che nel nucleo del costituendo buco nero si genera un nuovo tipo di pressione che sostituisce quella tipica della nucleosintesi che alimenta le stelle durante la loro vita. Il collasso stellare pertanto si ferma e questa fase può durare anche più di 10 milioni di anni, dopo di che, se nel frattempo l'astro non è riuscito a perdere sufficiente massa proprio attraverso la nuova forma di radiazione, il collasso riprenderà rapidamente fino alla creazione di un buco nero. Stante il lungo periodo della fase di stella elettrodebole e considerando che elettroni e neutrini trasportano una quantità di energia misurabile, Starkman e colleghi ipotizzano la possibilità di rivelare questo particolare tipo di stelle, anche se distinguerle chiaramente da altri oggetti non sarà facile. La sfida è lanciata.
Credit: CWRU, AAAS

mercoledì 9 dicembre 2009

Hubble fotografa l'universo neonato


Installata dagli astronauti dello Shuttle durante la missione di servizio al telescopio spaziale Hubble dello scorso maggio, la Wide Field Camera 3 (WFC3) continua a dare prova delle sue straordinarie capacità nell'osservazione e nello studio di oggetti estremamente deboli. Durante una sessione osservativa di durata complessiva di 173mila secondi, la WFC3 ha ripreso galassie distanti poco più di 12 miliardi di anni luce che popolvano, dunque, l'universo in un'epoca successiva al big bang di soli 900 milioni di anni. Si tratta di un'immagine "profonda" ottenuta nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Questo perchè la radiazione emessa dalle giovani stelle nel visibile e nell'ultravioletto ha subito, durante il suo lungo viaggio, un considerevole spostamento verso l'infrarosso a causa dell'espansione dell'universo. Immagini come questa ottenuta dalla WFC3 contribuiscono allo studio dei meccanismi che hanno portato alla formazione delle galassie nell'universo primordiale e allo loro successiva evoluzione.

Credit: NASA, ESA, G. Illingworth (UCO/Lick Observatory and the University of California, Santa Cruz), R. Bouwens (UCO/Lick Observatory and Leiden University) and the HUDF09 Team

Le megastelle esistono!

Autore: Michele Ferrara

Che massa può raggiungere una stella di Sequenza Principale? Almeno 200 masse solari! Ebbene sì. Dopo anni di studi alla ricerca di megastelle, dopo la scoperta di possibili candidati che si sono il più delle volte rivelati non singole stelle bensì stelle multiple, dopo che sembrava accertata l'inesistenza di astri oltre le 140 masse solari, limite oltre il quale (ma anche al di sotto del quale) le stelle perdono enormi quantità di materia, trasformandosi rapidamente in astri più normali, ecco che i risultati di uno studio accurato sulla supernova SN2007bi, pubblicati su Nature del 3 dicembre scorso, dimostrano che la stella progenitrice di quell'esplosione aveva la bellezza di circa 200 masse solari. Che la SN2007bi dovesse avere un progenitore particolarmente massiccio lo si era già sospettato per via della straordinaria luminosità raggiunta (50-100 volte più di una normale supernova), che aveva reso possibile studiarla per un periodo insolitamente lungo: un paio d'anni. Inoltre, vi erano teorie che da decenni prevedevano l'esistenza di megastelle. Quale miglior candidato? A studiarlo con i più potenti telescopi disponibili è stato un team internazionale di ricercatori guidato da Avishay Gal-Yam (Weizmann Institute of Science, Israel), team del quale ha fatto parte anche l'italiano Paolo Mazzali (in forza al Max-Planck Institute for Astrophysics). I risultati della ricerca sono molto interessanti perché svelano che le supernovae generate da oggetti oltre le 140-150 masse solari hanno un innesco totalmente diverso dalle supernovae per noi normali: in queste ultime, i processi di fusione termonucleare procedono fino alla sintesi del ferro, elemento che invece di concorrere alla produzione di elementi più pesanti e quindi nuova energia per sostenere la compressione della stella, richiede a sua volta energia, portando la stella al collasso. Nel progenitore del nuovo tipo di supernova, invece, quando la sintesi degli elementi porta il nucleo ad essere costituito prevalentemente di ossigeno, l'enorme pressione innesca un rilascio di fotoni estremamente energetici, che favoriscono la creazione di coppie elettroni/positroni. La successiva annichilazione delle due particelle produce uno scompenso nella pressione che dal nucleo sale verso gli strati esterni della megastella, che d'improvviso collassa innescando un'altrettanto improvvisa fusione dell'ossigeno che produce una tale energia da far esplodere totalmente l'astro, senza che rimanga nulla al suo posto, oltre alla materia eiettata in rapidissima espansione. Dunque, né buco nero né pulsar restano a testimonianza del collasso.Nell'universo attuale le megastelle dovrebbero essere molto rare, ma in quello primordiale rappresentavano probabilmente la popolazione più numerosa e con la loro esplosione hanno avviato l'arricchimento metallico del mezzo interstellare.
Credit: NASA/CXC/NCSU/S.Reynolds et al

mercoledì 2 dicembre 2009

Iris Nebula: la polvere non è mai stata così bella!

Sir William Herschel è stato uno dei più assidui osservatori del cielo. Oltre alla scoperta del pianeta Urano, a lui si devono le osservazioni di decine di oggetti celesti che ancora oggi continuano a essere "preda" di appassionati di tutto il mondo. Fra le nebulose da lui individuate c'è NGC 7023, nota come Iris Nebula. Osservata per la prima volta nel 1794, dista circa 1400 anni luce nella costellazione di Cefeo. Le sue dimensioni sono stimate in circa 6 anni luce. Si tratta di una nebulosa a riflessione: la luce che osserviamo è quella di una stella vicina, denominata HD 200775, diffusa dalle particelle di polveri, di dimensioni da 10 a 100 volte più piccole dei granelli di polvere che si depositano nelle nostre case, di cui è ricca la Iris Nebula. Al contrario, le nebulose a emissione emettono la radiazione luminosa quando le particelle di gas che le compongono vengono eccitate. NGC 7023 è una nebulosa ricca di polveri. E se le polveri interstellari sono generalmente molto mal viste dagli astronomi in quanto impediscono di osservare gli oggetti più distanti, nel caso delle nebulose a riflessione, come la Iris Nebula, possono darci importanti informazioni sui meccanismi di formazione stellare. Normalmente le nebulose a riflessione tendono ad apparirci di colore blu. Nel caso della Iris Nebula il colore dominante è però il rosso probabilmente dovuto alla presenza di una qualche sostanza, probabilmente un idrocarburo. Le splendide immagini dell'area circostante NGC 7023 e di una regione al suo interno sono state ottenute dal telescopio spaziale Hubble e consentiranno di determinare meglio la composizione della Iris Nebula.

Credit: NASA/ESA

lunedì 30 novembre 2009

Con "L'Astrofilo" il primo dei fumetti scientifici


E' già on line, scaricabile gratuitamente collegandosi al sito della rivista, il numero 13 de "L'Astrofilo", la rivista degli appassionati di astronomia. Con il numero di dicembre, ricco come sempre di articoli e rubriche, c'è anche la sorpresa già annunciata lo scorso mese: il primo dei fumetti educativi che accompagneranno per nove mesi le uscite de "L'Astrfilo". In questo primo numero si raccontano gli effetti del Sole e delle attività umane sull'atmosfera, sul clima, sull'ambiente in generale. Un modo nuovo, più diretto e coinvolgente per parlare di scienza ai più giovani, nel tentativo di colmare una grave lacuna nel mondo dell'editoria scientifica italiana.

venerdì 27 novembre 2009

I "mattoni" della Galassia

La Via Lattea, così come le altre galassie, ha assunto il suo attuale aspetto nel corso dei miliardi di anni di vita, durante i quali è andata incontro a passaggi ravvicinati, con altre galassie, a processi di fusione (merging), a modifiche morfologiche più o meno radicali. Compito degli astronomi è anche quello di mettere insieme i pezzi che compongo la lunga storia evolutiva delle galassie attraverso lo studio degli ammassi del bulge, cioè il rigonfiamento centrale delle galassie, o dei globulari dell'alone, la loro parte più esterna. E' quello che ha fatto un gruppo di astronomi guidato da Francesco Ferraro dell'Università di Bologna che ha sfruttato le eccezionali capacità dell'ottica adattiva del Very Large Telescope dell'Eso per studiare Terzan 5, un ammasso nascosto dagli spessi strati di polveri e gas che risiedono nel bulge galattico. "Solo grazie alle potenzialità del VLT - afferma Barbara Lanzoni, co-autrice della ricerca - siamo riusciti a penetrare la nebbia che avvolge il bulge, ricavando importanti informazioni sulla sua natura e struttura." Quello che i ricercatori hanno scoperto è stato non solo che Terzan 5 ha una massa superiore a quella che si sospettava, ma anche che le stelle che lo compongono non sono nate tutte assieme, ma appartengono ad almeno due generazioni successive, la prima che può essere fatta risalire a 12 miliardi di anni fa, la seconda, più giovane, a 6 miliardi di anni fa. "Generazioni diverse di stelle erano state osservate a oggi solo nell'ammasso globulare Omega Centauri - afferma Emanuele D'Alessandro, un altro degli autori della ricerca - E' la prima volta che le si osserva in un oggetto del bulge galattico." La scoperta è importante perchè fornisce importanti informazioni sui processi evolutivi che hanno forgiato, nel corso di miliardi di anni, le galassie. In particolare, alla luce di quanto osservato dai ricercatori italiani, si pensa che Terzan 5 possa essere quello che resta di una protogalassia inglobata dalla Via Lattea nelle fasi iniziali della sua vita e che è andata poi a contribuire alla formazione del bulge galattico.

Credit: ESO/ F. Ferraro

Verso Terzan 5 - ESO video

mercoledì 25 novembre 2009

Un nuovo look per il sito de "L'Astrofilo"


In poco più di un anno dalla sua prima uscita si è già imposta quale riferimento per tutta la comunità degli appassionati di astronomia. La rivista "L'Astrofilo", prima a essere distribuita per via telematica e prima anche a essere assolutamente gratuita, si presenta ogni mese ricca di contenuti per gli esperti o per chi è alle prime armi, capace di comiugare il rigore scientifico della trattazione con la semplicità e la chiarezza del linguaggio. In più, da oggi è on line il nuovo sito della rivista. Oltre a un look più accattivante, collegandosi al sito i lettori troveranno una ricca sezione con le ultime notizie dal mondo della ricerca e un'altra con gli appuntamenti, particolarmente numerosi, organizzati in tutti Italia dalle associazioni. Oltre naturalmente ad avere la possibilità di scaricare gratuitamente tutti i numeri della rivista già pubblicati.

sabato 21 novembre 2009

L'ultimo pasto della galassia

La forma peculiare della galassia NGC 5128, conosciuta anche come Centaurus A, fu notata anche da John Herschel che nel 1847 la inserì nel suo catalogo di nebulose del cielo australe. Si tratta di una galassia ellittica gigante, distante circa 11 milioni di anni luce nella costellazione del Centauro. Al suo centro risiede un buco nero supermassiccio di circa 200 milioni di masse solari. Si tratta, dunque, di un buco nero 50 volte più massiccio di quello ospitato al centro della Via Lattea e che viene continuamente alimentato da grandi quantità di materia risucchiata dalla sua enorme forza di gravità. Questo continuo flusso di materia è all'origine delle intense emissioni radio che ne fanno uno degli oggetti più luminosi in questa regione dello spettro elettromagnetico (di qui il nome di Centaurus A con cui è pure conosciuta). Il suo aspetto, allo stesso tempo bello e spettacolare, è dovuto principalmente a una vasta banda opaca di polveri e gas che copre la parte centrale della galassia. Già da tempo si riteneva che la banda si sia formata a seguito di un processo di fusione (merging) verificatosi tra 200 e 700 milioni di anni fa con una più piccola galassia a spirale ricca di polveri. A seguito della fusione si sono innescati all'interno di Centaurus A intensi processi di formazione stellare. Infatti, lo scontro e la fusione di galassie, fenomeni abbastanza comuni e diffusi nell'universo, lungi dall'essere eventi distruttivi, sono al contrario in grado di innescare i processi che conducono alla formazione di nuove generazioni di stelle. Precedenti osservazioni condotte con telescopi sia da Terra che dallo spazio avevano già permesso di individuare quelli che si ritiengono essere i resti della galassia spirale divorata da Centaurus A. La conferma è giunta, però, grazie a una nuova tecnica di osservazione messa a punto dai ricercatori dell'ESO che ha permesso di penetrare all'interno della coltre di polveri che oscura il centro della galassia e di osservare per la prima volta i resti distorti e smembrati della galassia divorata. Gli astronomi dell'ESO, guidati da Joini Kainulainen, hanno utilizato il telescopio NTT di 3,5 metri che opera da La Silla in Cile. Combinando immagini ottenute in varie bande è stato possibile osservare "... in grande dettaglio, un evidente anello di stelle e ammassi oltre la banda oscura." La ricerca è importante non solo per comprendere meglio i meccanismi di fusione fra galassie, ma anche perchè la tecnica utilizzata con successo per Centaurus A potrà trovare ampia applicazione con la nuova generazione di telescopi giganti la cui realizzazione è prevista, sia a Terra (l'Extremely Large Telescope di 42 metri dell'ESO) che nello spazio (lo James Webb Space Telescope della NASA), per i prossimi decenni.
Credit: ESO


Uno splendido video dell'ESO che ci porta verso Centaurus A

venerdì 20 novembre 2009

Un super bolide sui cieli del West


Autore: Michele Ferrara


Proprio mentre andavano spegnendosi le ultime fiammelle delle Leonidi, un superbolide ha incendiato i cieli degli Stati Uniti occidentali, in particolare Colorado, Utah, Wyoming e Idaho. Era da poco passata la mezzanotte locale fra 17 e 18 novembre, quando di colpo la notte si è trasformata in giorno, come riportato da numerosi testimoni, la cui attenzione è stata inizialmente attratta dal luminosissimo superbolide, che dopo un apparentemente breve percorso è esploso producendo un flash che ha illuminato ogni cosa, ridando al cielo la tipica colorazione azzurra del giorno, tanto che i sensori di buio dell'illuminazione pubblica hanno spento i lampioni. Sei ore dopo, all'alba, in direzione della zona celeste interessata dall'esplosione, era ben visibile un'insolita nuvola dalla struttura circolare.
Dalle prime analisi si è appurato che il corpo progenitore del superbolide aveva dimensioni comprese fra quelle di un forno a microonde e quelle di una lavatrice, e non apparteneva allo sciame delle Leonidi, era bensì un oggetto isolato, cosa abbastanza tipica quando si producono fenomeni di questo genere. L'esplosione è avvenuta poco oltre i 100 km di quota e l'energia scatenata è stata di 0,5-1,0 kiloton, quindi molto meno potente di quella avvenuta sull'Indonesia alla fine dello scorso ottobre. Circa 5 minuti dopo il flash dell'esplosione, i testimoni hanno udito un rombo e un leggero scuotimento dell'aria e del suolo. In diversi hanno anche segnalato una frammentazione in almeno cinque pezzi principali ed è già iniziata la caccia ad eventuali meteoriti.

Credit: bbc.co.uk

sabato 14 novembre 2009

Sulla Luna l'acqua c'è e (finalmente!) si vede



In una sera di fine novembre di 400 anni fa Galileo Galilei puntò il suo cannocchiale verso la Luna. Per la prima volta il nostro satellite, che per millenni aveva custodito gelosamente i misteri sulla sua vera natura, composizione e aspetto, iniziò a rivelarsi all'indagine scientifica. Da quelle prime osservazioni con un rudimentale strumento ottico l'uomo ha fatto passi da gigante nello studio e nella conoscenza della Luna, arrivando anche a calpestarne il polveroso suolo in una notte di luglio di 40 anni fa. Oggi, quasi a voler celebrare nel più degno dei modi questi anniversri, la NASA ha dato l'annuncio di una delle più importanti scoperte relative al nostro satellite: l'acqua, di cui pure era stata recentemente accertata la presenza grazie all'individuazione di significative quantità di idrogeno, è copiosamente e diffusamente presente sotto forma di ghiaccio nel sottosuolo lunare delle regioni perennemente in ombra nei pressi del polo sud. La scoperta, frutto dell'analisi dei dati raccolti nel corso della missione LCROSS (Lunar Crater Observatione and Sensing Satellite), è di straordinaria importanza: il ghiaccio presente nel sottosuolo lunare rappresenta, infatti, non solo uno eccezionale giacimento di acqua da sfruttare in future missioni spaziali, ma, come per i ghiacci artici terrestri, è uno fondamentale strumento di indagine sulla storia e l'evoluzione del nostro satellite poichè conserva le traccie degli eventi che lì si sono verificati nel corso di miliardi di anni. "Stiamo svelando i misteri della Luna e, di conseguenza, del sistema solare" afferma con orgoglio il ricercatore della NASA Michael Wargo. "Siamo semplicemente estasiati" gli fa eco Antony Caloprete, responsabile scientifico della missione, che nel corso di una conferenza stampa ha presentato i risultati ottenuti dall'analisi dei dati raccolti da LCROSS. Lanciata il 18 giugno 2009 insieme all'altra sonda LRO pure destinata a studiare il nostro satellite, LCROSS ha percorso complessivamente 9 milioni di chilometri prima di schiantarsi, insieme all'ultimo stadio del razzo vettore che l'ha trasportata verso la Luna, all'interno del cratere Cabeus, in prossimità del polo sud lunare, lì dove i raggi del Sole non riescono mai a illuminarne i ripidi pendii. L'impatto è avvenuto lo scorso 9 ottobre, dopo 113 giorni di missione. A seguito dello schianto si è sollevata un'enorme nube di polveri e vapore, mentre una seconda colonna di detriti più pesanti si è formata con un'angolazione minore rispetto alla superficie lunare. L'analisi spettroscopica condotta sia in banda infrarossa che ultravioletta ha permesso di accertare l'inequivocabile presenza di abbondanti quantità di acqua in entrambi i pennacchi sollevatisi, mettendo così fine a uno dei misteri della Luna da sempre ritenuta un luogo arido e desolato. L'analisi dei dati raccolti da LCROSS proseguirà ora per meglio comprendere quale sia la distribuzione dei giacimenti di ghiaccio nel sottosuolo lunare.

Credit: NASA

venerdì 13 novembre 2009

La sonda Rosetta e le misure di gravità

di Michele Ferrara - "L'Astrofilo"


Oggi, 13 novembre, la sonda Rosetta ha effettuato l’ultimo di tre gravity assist con la Terra e si è così immessa nella traiettoria che la porterà a visitare prima l’asteroide (21) Lutetia, nell’estate del 2010, e poi la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko nel 2014. Ma di per sé questa non è una notizia. Il vero motivo per cui questo passaggio della sonda Rosetta è degno di interesse va ricercato nel fatto che l’analisi delle misure ricavate sulla sua velocità, prima e soprattutto dopo il flyby, potrebbe finalmente consentire al mondo scientifico di far luce su un vero e proprio mistero che da una ventina d’anni arrovella le menti degli addetti ai lavori, ovvero quelle differenze di velocità, in meno o in più rispetto al valore previsto da accuratissimi calcoli, palesate da varie sonde che hanno usufruito nel passato del gravity assist con la Terra. Si tratta di differenze infinitesime ma pur sempre misurabili e discriminabili da qualunque errore strumentale. Per fare degli esempi, la sonda Galileo mostrò nel 1990 un’accelerazione inattesa di 3,9 mm/s; la NEAR nel 1998 di 13,0 mm/s; al contrario nessuna significativa variazione imprevista fu registrata dopo i flyby della Cassini e della MESSENGER. Anomalie simili (però negative) erano già state verificate per le sonde Pioneer 10 e 11, anche se in contesti diversi, ma in ogni caso non c’è ancora una spiegazione e quindi nemmeno la possibilità di prevedere se e di quanto risulterà accelerato o decelerato il moto della Rosetta dopo il passaggio odierno, ovviamente al di là di quella che è l’accelerazione prevista dai calcoli. Tuttavia, a differenza di occasioni precedenti, questa volta sono impegnati nelle misure una gran quantità di radiotelescopi, tutti al meglio delle loro potenzialità, e gli scienziati coinvolti nelle misurazioni confidano nella possibilità di raccogliere indizi sufficienti a risolvere il problema. Fra le varie soluzioni finora avanzate (escludendo chiaramente errori strumentali e problemi al software) troviamo riferimenti a sconosciuti effetti indotti dalle forze mareali terrestri, dal frenamento atmosferico, dalla pressione di radiazione del nostro pianeta, e si arriva a tirare in ballo materia oscura, energia oscura e addirittura anomalie spazio-temporali generate dalla rotazione terrestre. E’ quindi comprensibile l’elevato livello di attenzione che è stato dato a quest’ultimo passaggio della sonda Rosetta. Un interesse che va ben al di là della notizia in sé.
Credit: ESA ©2009 MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/RSSD/INTA/UPM/DASP/IDA

sabato 7 novembre 2009

L'atmosfera di carbonio della stella di neutroni


Dieci anni fa, nel 1999 il trelescopio spaziale Chandra della Nasa che opera nella regione X dello spettro elettromagnetico iniziava le sue osservazioni. Il primo oggetto a essere ripreso fu Cassiopea A (Cas A), il resto di una supernova esplosa nella nostra galassia circa 330 anni fa. In quella prima immagine era chiaramente visibile la stella di neutroni che si formò a seguito dell'esplosione della supernova di cui Cas A è ciò che rimane. Ma a differenza di quanto succede per le altre stelle di neutroni fino ad allora note, quella al centro di Cas A non mostrava alcuna delle tipiche pulsazioni radio o X. Un gruppo di ricercatori guidato dagli astronomi Wynn Ho e Craig Heinke ha però elaborato un modello in grado di risolvere questo piccolo mistero. "La stella di neutroni al centro di Cas A - afferma Wynn Ho - è stata un enigma fin dalla sua scoperta. Finalmente però abbiamo capito che il suo comportamento può essere compreso ipotizzando che la stella sia uniformemente avvolta in una sottile atmosfera di carbonio." Grazie agli spettri ottenuti da Chandra il modello proposto ha trovato conferma. Esso prevede che la sottile atmosfera di carbonio, spessa appena 10 centimetri schiacciata com'è da una gravità 100 miliardi di volte più intensa di quella della Terra, fa in modo che la regione di emissione X si distribuisca uniformemente intorno alla stella che brilla così egualmente in tutte le direzioni senza alcuna rilevabile variazione in intensità legata alla sua rotazione. Lo studio delle stelle di neutroni è particolarmente importante ai fini della comprensione dei meccanismi di evoluzione delle stelle massicce e il modello proposto rappresenta un notevole contributo eliminando altre più esotiche spiegazioni che pure erano state proposte.

Credit: X-ray: NASA/CXC/Southampton/W. Ho et al.; Illustration: NASA/CXC/M.Weiss

mercoledì 4 novembre 2009

Il più distante ammasso di galassie


Combinando le immagini ottenute in banda X dal telescopio spaziale Chandra della NASA e nell'ottico dal VLT dell'ESO che opera sotto i bui cieli del Cile gli astronomi hanno individuato quello che pare essere il più distante ammasso di galassie. A circa 10,2 miliardi di anni luce di distanza e con un'estensione di almeno 190 milioni di anni luce, JKCS041, questa la sigla che lo identifica, appare già completamente formato in un'epoca in cui l'universo aveva solo un quarto della sua età attuale. Gli ammassi sono enormi agglomerati di centinaia o anche migliaia di galassie tenute insieme dalla reciproca gravità. La loro formazione è successiva a quelle delle galassie, in un'epoca il cui inizio gli astronomi collocano proprio intorno a 3,5 miliardi di anni dopo il big bang. JKCS041 si trova, dunque, proprio al limite dell'epoca di formazione degli ammassi. Per questo motivo, gli astronomi prima di annunciarne la scoperta, hanno dovuto escludere altre ipotesi come per esempio un casuale allineamento di galassie lungo la linea di vista. Sono state proprio le immagini X di Chandra a dare la conferma definitva che quello che si osserva è proprio un ammasso già completamente formato. L'emissione X proveniente da JKCS041 appare come una diffusa regione di colore blu nell'immagine a lato, mentre le singole galassie sono le macchiette bianche immerse nell'alone blu.

Credit: X-ray: NASA/CXC/INAF/S.Andreon et al Optical: DSS; ESO/VLT

venerdì 30 ottobre 2009

L'ASTROFILO: le sorprese raddoppiano


Con l'uscita del numero 12 la rivista L'Astrofilo festeggia il primo anno di pubblicazioni. Distribuita gratuitamente per via telematica a tutti quelli che si registrano al suo sito ha rappresentato fin dalla sua prima uscita una vera rivoluzione nel panorama della divulgazione scintifica e astronomica in Italia. Il rigore con cui gli argomenti sono trattati si coniuga magnificamente con la comprensibilità e la chiarezza dell'esposizione; lo spazio (ampio) riservato alle attività dei gruppi di appassionati si affianca a quello, altrettanto consistente, delle prove strumentali, delle tecniche di osservazione, delle esperienze degli astrofili. Soprattutto, caso forse unico nella editoria scientifico - divulgativa italiana, la rivita è distribuita assolutamente gratis: niente abbonamenti, niente difficoltà nel reperirla nelle edicole, niente carta inutile stampata per non essere letta e per venire poi buttata (la natura ringrazia!). Nel numero di novembre, già on line, oltre alle effemeridi del mese e le classiche rubriche, è possibile leggere tra gli altri un bellissimo articolo di Andrea Simoncelli che, con il corredo di meravigliose immagini, ci conduce alla scoperta della Via Lattea. Ma le sorprese non finiscono qui. Nell'interessante editoriale di Michele Ferrara, lucida lettura del non felicissimo momento in cui si trova il mondo dell'editoria scientifica e quello dell'astrofilia italiana, viene annunciato l'inizio delle pubblicazioni, a partire dal prossimo numero, sempre per via telematica e sempre assolutamente gratis, di una serie di fumetti scientifici prodotti da università americane e giapponesi. L'obiettivo è quello di raggiungere e coinvolgere nella scoperta della natura e della scienza anche i più piccoli, spesso trascurati dagli editori, pronti piuttosto a proporre loro storie di maghi e fate piuttosto che condurli lungo i sentieri della conoscenza. Un primo, importante passo per colmare una lacuna nella divulgazione scientifica italiana.

giovedì 29 ottobre 2009

Uno scrigno prezioso


Gli ammassi aperti sono fra gli oggetti celesti più belli. Costituiti da poche decine fino a qualche migliaio di stelle debolmente legate dalla mutua gravità, la loro visione binoculare o telescopica ci regala lo scintillante spettacolo di grappoli di stelle proiettate contro uno sfondo scuro. Lostudio degli ammassi aperti è però importante anche da un punto di vista scientifico. Le stelle che lo compongono sono nate tutte assieme dalla stessa nube di gas. Di conseguenza l'età e composizione chimica è la stessa per tutte le stelle di uno stesso ammasso e, dunque, osservandone le caratteristiche è possibile ottenere importanti informazioni sui processi evolutivi stellari. Uno fra i più spettacolari ammassi aperti, visibile anche a occhio nudo dai cieli dell'emisfero australe, è NGC 4755 soprannominato lo Scrigno. Dista 6400 anni luce e le sue stelle si sono formate circa 16 milioni di anni fa. Il nome gli fu dato da John Herschel che nel 1830 lo osservò rimanendo colpito dall'eccezionale bellezza delle sue stelle blu e rosse che gli ricordavano appunto dei gioielli custoditi in un scrigno. Oggi, a 180 anni dalle prime osservazioni di Herschel, possiamo condividere la sua meraviglia e ammirazione osservando NGC 4755 ripreso dai telescopi dell'ESO che operano sotto i bui cieli del Cile. Grazie alla Wide Field Imager applicata al telescopio di 2,2 metri e allo spettrografo FORS1 del Very Large Telescope gli astronomi dell'ESO hanno ottenuto delle spettacolari immagini che ci restituiscono l'ammasso in tutta la sua sfolgorante bellezza.
Credit: ESO/Y. Beletsky

giovedì 22 ottobre 2009

Gli ingredienti della vita su un pianeta extrasolare


Le osservazioni congiunte dei due telescopi spaziali Hubble e Spitzer hanno permesso a un gruppo di astronomi guidato da Mark Swain di rilevare la presenza delle molecole di acqua, metano e anidride carbonica nell'atmosfera di un pianeta extrasolare distante 150 anni luce. HD 209458b, questo la sigla con la quale viene identificato il pianeta, è un un gigante gassoso di dimensioni e massa maggiori di quelle di Giove che ruota attorno alla sua stella su un'orbita molto stretta. Di conseguenza, la sua temperatura è molto elevata tanto da renderlo assolutamente inadatto alla vita. Eppure la scoperta di queste molecole, fondamentali in tutti i processi biologici, è molto importante ai fini della comprensione dei meccanismi che possono portare alla nascita della vita altrove nell'universo. "E' il secondo pianeta fuori dal sistema solare nella cui atmosfera sono state rilevate le molecole di acqua, metano e anidride carbonica. - afferma Swain - Ciò fa aumentare di molto le possibilità di trovare pianeti in cui la presenza di queste molecole e un ambiente più favorevole possono aver portato alla formazione della vita." Le molecole in questione erano già state rilevate attorno al pianeta extrasolare HD 189733b. Nel caso di HD 209458b, però, la quantità di metano rilevata risulta essere maggiore e questo, come afferma Swain, "è importante, se non altro per comprendere i meccanismi di formazione del pianeta." La ricerca di mondi in grado di ospitare la vita proseguirà anche con l'ausilio di nuove tecniche di rilevazione e dell'osservatorio spaziale Kepler, appositamente progettato e realizzato per scoprire pianeti rocciosi di taglia terrestre.

Credit: NASA/JPL-Caltech

mercoledì 14 ottobre 2009

Una piccola ma stupenda galassia


Ad appena 1,6 milioni di anni luce di distanza, NGC 6822 è una delle galassie a noi più vicine. Insieme alla Via Lattea, alla galassia di Andromeda, a quella del Triangolo e a un'altra decina appartiene al Gruppo Locale. Le sue dimensioni sono estremamente ridotte se confrontate con quelle della nostra galassia, tanto da farla classificare come galassia nana irregolare. Eppure, l'immagine ottenuta col telescopio di 2,2 metri dell'ESO che opera sotto i bui cieli di La Silla in Cile ce la restituisce in tutta la sua sfolgorante bellezza. Le nebulose di colore rosso evidenziate nell'immagine sono regioni di intensa formazione stellare, mentre altre nebulose gassose sono illuminate dalla impetuosa radiazione emessa dalle numerose stelle neonate. Le galassie nane pur essendo di dimensioni molto ridotte rappresentano la tipologia di galassia più diffusaa. Il loro studio è importante perchè ci fornisce importanti indicazioni sui meccanismi di interazione fra galassie responsabili, fra l'altro, della loro forma irregolare.
Credit: ESO


Nel filmato realizzato dall'ESO NGC6822 ci viene mostrata in tutta la sua stupefacente bellezza.
Credit: ESO, Digitized Sky Survey 2, A. Fujii

martedì 13 ottobre 2009

L'anello gigante di Saturno


"E' un anello di dimensioni enormi. Se fosse visibile da Terra si estenderebbe per ben due volte il diametro della Luna piena." Anne Verbiscer dell'Università della Virginia non nasconde la sorpresa per il nuovo anello di Saturno che è stato recentemente scoperto dal telescopio spaziale Spitzer che osserva nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Il diametro da lato a lato è, infatti, di oltre 300 diametri di Saturno e anche il suo spessore, a differenza dei sottili anelli fino ad ora conosciuti, è notevole: circa 20 diametri planetari. Infine, a completare il peculiare quadro che lo caratterizza, c'è anche l'inclinazione di circa 27° rispetto al piano degli anelli noti. Il bordo interno del nuovo anello gigante inizia a 6 milioni di chilometri dal pianeta e si estende per altri 12 milioni di chilometri verso l'esterno: davvero dimensioni incredibili. Le osservazioni condotte da Spitzer hanno permesso di accertare che l'anello è costituito principalmente da polveri, probabilmente eiettate a seguito di impatti di comete sulla superficie del satellite Phoebe che, infatti, orbita proprio al suo interno. Il nuovo arrivato nel complesso sistema di Saturno può inoltre fornire una spiegazione a un vecchio mistero che riguarda un altro satellite, Giapeto. Già al tempo della sua scoperta, infatti, si è osservato che Giapeto presenta la peculiare caratteristica di possedere un emisfero, quello che avanza nel suo moto di rotazione, molto scuro e l'altro invece estremamente chiaro. Quale la causa di questa doppia faccia? Ebbene, confermando ipotesi già avanzate, potrebbe essere proprio il materiale disperso da Phoebe che costituisce il nuovo anello ad accumularsi progressivamente sull'emisfero di Giapeto che avavnza durante la sua rotazione, conferendogli il colore scuro.
Credit:
NASA/JPL-Caltech/Keck
Spitzer: NASA/JPL-Caltech/Univ. of Virginia; Hubble: NASA/ESA/STScI/AURA

sabato 10 ottobre 2009

LCROSS: riuscito perfettamente l'impatto con la Luna


Ha percorso circa 9 milioni di chilometri in una missione iniziata 113 giorni fa, insieme alla sonda gemella LRO, lo scorso 18 giugno. Quasi 4 mesi di missione per prepararsi all'impatto finale contro la superficie lunare allo scopo di studiarne, attraverso l'analisi della nume di detriti che si è sollevata, la composizione e di accertare definitifamente la presenza di acqua. Quella di LCROSS (Lunar Crater Observation and Sensing Satellite) è stata una missione importante non solo per aumentare le nostre conoscenze sulla Luna ma anche per preparare la strada alle future missioni con equipaggio con destinazione il nostro satellite. "Gli strumenti a bordo di LCROSS hanno funzionato perfettamente - spiega Anthony Colaprete, ricercatore della NASA e responsabile scientifico della missione - La grande quantità di dati sarà ora oggetto di analisi e studio da parte dei ricercatori." Il cratere Cabeus scelto quale bersaglio dell'impatto si trova in prossimità del polo sud lunare. Le sue pendici interne si trovano costantemente in ombra ed è quindi più alta la probabilità di trovarvi acqua sotto forma di ghiaccio. Inoltre il cratere presentava le migliori condizioni di visibilità al momento dell'impatto per tutti coloro che osservavano dalle coste occidentali degli Stati Uniti e dalle Hawaii. L'impatto è stato seguito dai maggiori telescopi sia da Terra che dallo spazio ed è stato osservabile anche dagli appassionati con piccoli strumenti.

Nel video della NASA le fasi finali della missione e lo schianto della sonda contro la superficie lunare.
Credit: NASA




mercoledì 7 ottobre 2009

Venerdì l'impatto della sonda LCROSS sulla Luna


E' fissato per venerdì 9 ottobre alle 14.30 ora americana l'impatto della sonda LCROSS sulla superficie lunare. L'impatto è stato programmato dai ricercatori della NASA allo scopo di studiare la composizione del suolo della Luna e, in particolare, per trovare conferme alla recente scoperta di acqua contenuta nelle rocce seleniche e di stimarne le quantità. Lanciata con una razzo Centaur nello scorso mese di giugno insieme alla sonda gemella LRO che sta mappando e analizzando la superficie della Luna, LCROSS (Lunar Crater Observation and Sensing Satellite) è stata progettata e costruita proprio allo scopo di rilevare, per mezzo di un impatto programmato, la composizione e la consistenza del suolo lunare. L'analisi della nube di detriti che si solleveranno a seguito dell'impatto prima con l'ultimo stadio del razzo Centaur e poi con la stessa LCROSS consentirà di comprendere e studiare la composizione del suolo lunare e di accertare in via definitiva la presenza di acqua. Il cratere bersaglio è stato scelto sia perchè prossimo al polo sud, lì dove resta perennemente in ombra e più elevata è la probabilità di trovare ghiaccio d'acqua, sia perchè offre le migliori condizioni di visibilità per gli appassionati che osservano dalle coste occidentali degli Stati Uniti e dalle Hawaii. L'evento, infatti, sarà seguito dagli astronomi professionisti che impiegheranno i migliori telescopi sia dallo spazio che sulla Terra, ma sarà osservabile anche dagli appassionati con strumenti modesti.

Credit: NASA

venerdì 2 ottobre 2009

Un sistema planetario in formazione


LRLL31 è una giovane stella di non più di qualche milione di anni di età che si trova, a circa mille anni luce di distanza, nella ricca regione di formazione stellare IC348 nella costellazione di Perseo. Come molte giovani stelle, LRLL31 è circondata da un disco di polveri e detriti nel quale sono in svolgimento processi di formazione planetaria. I pianeti si formano, infatti, per aggregazione successiva di detriti via via di dimensione maggiore all'interno dei dischi che circondano le stelle neonate. Ruotando attorno alla stella e aumentando progressivamente le proprie dimensioni il protopianeta scava una sorta di solco nel disco fino a ripulire completamente la propria orbita. Il processo è molto lento, tanto che i tempi per la formazione di un sistema planetario sono stimati nell'ordine delle decine di milioni di anni. Per questo motivo ha sorpreso molto gli astronomi ciò che ha osservato il telescopio spaziale Spitzer, che opera nella regione infrarossa dello spettro elettromagnetico, nel disco di LRLL31. Gli strumenti hanno, infatti, rilevato nel corso di 5 mesi di osservazioni delle rapide variazioni dell'intensità e della lunghezza d'onda della radiazione infrarossa emessa dal disco protoplanetario che circonda la giovane stella. Le variazioni avvengono in tempi decisamente brevi, dell'ordine anche di una sola settimana. Un strano comportamento se si pensa ai lunghi tempi necessari ai processi di accrescimento planetario. Il gruppo di astronomi guidato da James Muzerolle autore della scoperta ha però elaborato un modello in grado di dar conto del comportamento osservato. I ricercatori ipotizzano infatti la presenza di un compagno di LRLL31, un grosso pianeta o una stella, che orbita a una distanza non superiore a 15 milioni di chilometri. La presenza del compagno induce nel disco variazioni consistenti dello spessore con ricadute sia sull'intensità che sulla lunghezza d'onda infrarossa emessa. Un modello che sarà oggetto di ulteriori verifiche nel corso di campagne osservative pianificate dal gruppo di Muzerolle utilizzando sia telescopi da Terrra che lo stesso Spitzer che ha ormai iniziato la fase di operatività "calda" dopo che è andato esaurito il refrigerante utilizzato per raffreddare i rilevatori di bordo durante i primi anni della missione.

Credit: NASA/JPL-Caltech/R. Hurt (SSC)

mercoledì 30 settembre 2009

L'Astrofilo: un numero speciale dedicato al telescopio


Nell'anno dedicato alle celebrazioni del 400° anniversario del primo uso in ambito scientifico del telescopio non poteva mancare una pubblicazione che con competenza e chiarezza ripercoresse la storia e la tecnica dello strumento che ha cambiato per sempre la nostra visione dell'universo. Ci ha pensato la rivista on line "L'Astrofilo" che presenta un numero speciale interamente dedicato al telescopio. Il numero 11 di ottobre è scaricabile gratuitamente collegandosi a questo link. Insieme agli articoli dedicati alle celebrazioni, alla storia, alla tecnica e alla didattica con il telescopio, sono disponibili le effemeridi del mese di ootobre, le novità e gli appuntamenti dal mondo degli appassionati e tanti consigli per chi si avvicina per passione o per studio all'astronomia.

venerdì 25 settembre 2009

Acqua sulla Luna

Dati raccolti da tre diverse sonde hanno consentito ai ricercatori della NASA di confermare la presenza di acqua sulla superficie della Luna. Grazie ai dati raccolti con lo spettrometro a bordo della sonda indiana Chandrayaan-1 è stato possibile rilevare la caratteristica impronta delle molecole di acqua e ossidrile (OH) nello spettro della luce riflessa dalla superficie delle regioni polari del nostro satellite. “La ricerca dell’acqua sulla Luna – afferma Jim Green del Dipartimento di Scienze Planetarie della NASA – è stata per molto tempo una corsa al santo graal. La scoperta è il frutto di una lunga e intensa collaborazione fra le agenzie spaziali americana e indiana.” Naturalmente, non si è di fronte alla scoperta di laghi, mari o fiumi che scorrono sulla Luna. Al contrario, si tratta di piccole ma significative quantità di acqua e ossidrile contenute nelle rocce e subito al di sotto della superficie del nostro satellite. La presenza di acqua era stata già sospettata nel 1999 analizzando i dati raccolti dalla sonda Cassini durante il fly by con la Luna necessario alla sua lunga marcia di avvicinamento a Saturno dove è ancora operativa. La conferma definitiva è poi venuta dal confronto con i dati raccolti durante il passaggio ravvicinato dello scorso giugno della missione Epoxi, missione che estende l’operatività della Deep Impact che, dopo aver avvicinato e rilasciato un proiettile per studiare la cometa Temple 2, è ora in avvicinamento alla cometa Hartley 2 che incontrerà nel novembre 2010 non prima di aver raccolto importanti informazioni sui corpi del sistema solare. Epoxi è stata capace di mappare la distribuzione di acqua e ossidrile in funzione della temperatura, della latitudine, della composizione superficiale e dell’ora del girono, confermando in maniera inequivocabile la presenza di queste molecole sulla superficie lunare.

Nell’immagine: a sinistra, un cratere lunare di recente formazione; a destra, la distribuzione dei minerali ricchi d’acqua mostrata in falsi colori.
Credit: NASA

venerdì 18 settembre 2009

L'universo di Planck



Destinato a misurare e studiare la radiazione cosmica di fondo, l'osservatorio spaziale Planck dell'ESA ha appena completato la survey di prova del corretto funzionamento dei suoi strumenti. La qualità dei risultati ottenuti da rassicurazioni non solo sul fatto che a bordo tutto procede per il megio ma fa ben sperare gli astronomi sulla possibilità di gettare nuova luce sulle primissime fasi dell'evoluzione dell'universo. Planck è stato lanciato il 14 maggio scorso per raggiungere il punto lagrangiano L2, lì dove le forze gravitazionali di Terra e Sole si equilibrano. L'obiettivo della missione è quello di ottenere una nuova mappa dell'intero cielo nella regione delle microonde evidenziando le piccole differenze di temperatura presenti nel fondo cosmico, la radiazione fossile del big bang. Per far questo gli strumenti a bordo di Planck sono raffreddati a temperature prossime allo zero assoluto (-273,15°C). Planck è così in grado di rilevare differenze di temperature nella radiazione cosmica di fondo pari a un milionesimo di grado. Prima di iniziare la mappatura del cielo i responsabili di missione hanno fatto eseguire agli strumenti di bordo una survey di prova per verificarne il corretto funzionamento. In circa 15 giorni Planck ha così misurato il fondo a microonde di una regione di cielo in prossimità del piano galattico. Il risultato è la banda a più colori che è riprodotta, sullo sfondo della Galassia, nell'immagine in alto. I due quadrati individuano due particolari riprodotti in dettaglio nelle immagini in basso. Si tratta di una regione all'interno del piano galattico e di una posta a latitudini maggiori. La qualità delle immagini è definita eccellente dai responsabili di missione.










Credit: ESA, LFI & HFI Consortia (Planck), Background image: Axel Mellinger

giovedì 17 settembre 2009

Il pianeta roccioso di CoRoT - 7


Mesi di duro lavoro e di misure certosine hanno permesso di scoprire la natura rocciosa del pianeta extrasolare noto con la sigla CoRoT 7b. Grazie a misure incrociate di massa e diametro è stato, infatti, possibile determinare la densità del pianeta che è risultata essere molto simile a quella della Terra consentendo così di stabilirne la natura rocciosa. La scoperta di CoRoT -7b era stata annunciata lo scorso febbraio ma risale a cira dodici mesi prima durante i quali i recercatori hanno condotto una serie interminabile di oservazioni che hanno consentito di misurarne il diametro risultato essere di poco inferie a due volte quello terrestre. Individuato attorno a CoRoT -7, una stella di 1,5 miliardi di anni distante circa 500 anni luce nella costellazione dell'Unicorno e con massa e temperaruta di poco inferiori a quelle del Sole, il pianeta percorre in appena 20,4 ore un'orbita molto stretta di raggio di 2,5 milioni di chilometri (23 volte inferiore a quella di Mercurio). CoRoT -7b è stato scoperto col metodo dei transiti dal telescopio spaziale CoRoT, nato da una collaborazione fra Francia, ESA e altri Paesi e appositamente progettato per scoprire nuovi pianeti extrasolari. Grazie al fortunato allineamento del pianeta e della stella lungo la linea di vista con la Terra, il pianeta si trova periodicamente a transitare sul disco della stella determinando la caduta di luminosità di quest'ultima misurata da CoRoT, che ha pure consentito di stabilire il diametro del pianeta. Le sue ridotte dimensioni, circa 2 volte quelle della Terra, avevano fatto subito pensare che potesse trattarsi di un pianeta di tipo roccioso, ma in mancanza della misura della sua massa era impossibile stabilirlo con certezza. Per questa misura è stato allora utilizzato il telescopio di 3,6 metri dell'ESO che opera sotto i cieli bui di La Silla in Cile e lo spettrografo HARPS. Oltre 70 ore di osservazioni e di misure delle piccole variazioni della velocità radiale indotte sulla stella dall'attrazione gravitazionale del pianeta hanno consentito di determinarne la massa che è risultata essere di 5 masse tererstri e quindi la densità, tipica di un corpo roccioso. CoRoT - 7b va così a collocarsi nella ristretta categoria di pianeti extrasolari detti, per le loro caratteristiche di massa e dimensioni, "super Terre". La vicinanza alla stella fanno però di questo pianeta un mondo del tutto inadatto a ospitare la vita. Sulla superficie esposta alla radiazione della stella la temperatura raggiunge anche i 2000 gradi centigradi per scendere a meno 200 nella parte in ombra. I ricercatori dell'ESO hanno anche potuto individuare la presenza di un secondo pianeta nel sistema di CoRoT -7. Si tratta di un corpo, denominato CoRoT -7c, di circa 8 masse terrestri che orbita attorno alla stella in 3 giorni e 17 ore.

Credit: ESO/L. Calcada

lunedì 14 settembre 2009

L'occhio di Hubble di nuovo a lavoro

Se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sulle potenzialità del telescopio spaziale Hubble dovrà ricredersi. I nuovi strumenti installati nel corso della missione di servizio dello Shuttle non solo sono perfettamente funzionanti ma, a giudicare dalle prime imamgini rilasciate dai ricercatori della NASA, promettono ancora lunghi anni di importanti risultati scientifici. Nel corso dei 19 anni di operatività, Hubble ha ricevuto ben quattro missioni di riparazione e sostituzione di strumenti e apparati tecnici. Ma i risultati vanno ben oltre le aspettative, garantendo agli astronomi di tutto il mondo di poter continuare a contare su uno strumento scientifico delle potenzialità del telescopio spaziale almeno fino al 2014, quando dovrebbe entrare in funzione il nuovo James Webb Space Telescope destinato a sostituire Hubble.



Le immagini rilasciate sono a dir poco spettacolari. Ne proponiamo quattro che ben danno l'idea di cosa potrà ancora produrre il telescopio spaziale con la nuova camera WFC3 installata dagli astronauti dello Shuttle.




La prima immagine è la nebulosa planetaria NGC 6302. La sua meravigliosa forma a farfalla è dovuta ai gas emessi da una stella di circa 5 masse solari giunta agli ultimi stadi del suo percorso evolutivo. Terminate le riserve di combustibile nucleare che ne hanno garantito la stabilità per miliardi di anni, la stella si libera degli strati più esterni mentre il suo nucleo si contrae a formare una nana bianca.




La seconda immagine è, invece, un particolare del famoso quintetto di Stephan. Si tratta di un gruppo di galassie interagenti. Dagli scontri e dalle fusioni reciproche si innescheranno processi di formazione stellare che porteranno alla nascita di milioni di nuove stelle.




Un particolare dell'ammasso globulare Omega Centauri è, invece, ripreso nella terza immagine. Omega Centauri è uno dei più grandi ammassi globulari della Galassia. Contiene centinaia di migliaia di stelle impacchettate in una regione relativamente piccola. Lo studio degli ammassi globulari è particolarmente importante perchè, trattandosi degli oggetti più antichi dell'universo, ci consentono di far luce sulle prime fasi dell'evoluzione delle stelle e delle galassie.




Infine, nella quarta immagine è visibile un particolare della Carina Nebula. Distante circa 7500 anni luce è una regione di intensa formazione stellare.




Credit: NASA, ESA and the Hubble SM4 ERO Team

venerdì 4 settembre 2009

In declino il magnetismo solare?



E' noto he il Sole sta vivendo uno dei minimi di attività più pronunciati e prolungati dell'ultimo secolo. La sua superficie appare desolatamente priva di macchie per intere settimane e anche mesi e fra i fisici solari sono ormai aperte le scommesse su quanto a lungo durerà questa situazione. Un recente studio di Bill Livingston del National Solar Observatory (NSO) in Arizona fa temere che l'attesa per la ripresa dell'attività solare possa durare ancora a lungo. I ricercatori del NSO hanno misurato l'intensità del campo magnetico delle macchie solari negli ultimi 17 anni ricavando un andamento di evidente declino. Estrapolando i dati si prevede che, perdurando la stessa tendenza, nel 2015 le macchie solari potrebbero sparire del tutto. L'esistenza delle macchie sulla superficie del Sole è strattamente legata al magnetismo solare. Infatti, le macchie si formano quando il campo magnetico solare è particolarmente intenso da bloccare parzialmente il flusso di calore proveniente dall'interno della stella, raffreddando localmente la superficie solare che appare perciò di colore più scuro rispetto alle regioni circostanti. L'indebolimento dell'intensità del magnetismo solare ha perciò dirette conseguenze sul numero e sulle dimensioni delle macchie. I dati del NSO sono incontrovertibili e accettati dall'intera comunità dei fisici solari. Più controversa è la possibilità di estrapolazione dei dati per elaborare previsioni future. Alcuni ricercatori fanno infatti notare come la tendenza evidenziata per il magnetismo solare possa essere una normalissima fase dell'andamento ciclico dell'attività della nostra stella e che perciò potrebbe non essere affatto premonitrice della scomparsa per lungo periodo delle macchie solari. D'altra parte, non sarebbe la prima volta, nemmeno in età storica, che le macchie solari spariscono per lunghi periodi. Ad esempio tra il 1645 e il 1715, per circa 70 anni, la superficie solare si mostrò quasi completamente priva di macchie. Quel periodo, noto come minimo di Maunder, fu caratterizzato sulla Terra da temperature particolarmente basse, tanto da far parlare di "piccola era glaciale".


Fonte: NASA

mercoledì 2 settembre 2009

La gemella della Via Lattea


Nonostante si mostri di taglio e ci appaia, dunque, con una caratteristica forma a sigaro, gli astronomi sono convinti che sia una galassia molto simile alla Via Lattea. Si tratta di NGC 4945, una galassia distante circa 13 milioni di anni luce nella costellazione del Centauro. Fu osservata per la prima volta sotto i cieli australiani dallo scozzese James Dunlop ed è oggi alla portata anche di telescopi di media apertura. Come la nostra galassia, anche NGC 4945 è una spirale i cui bracci si dipartono da una barra centrale con un nucleo molto luminoso. Al suo centro è ospitato un buco nero supermassiccio con massa dell'ordine dei milioni di masse solari. Proprio alla continua caduta di materia, gas e polveri, nel buco nero, risucchiata dal forte campo gravitazionale, è dovuta l'emissione di intensa radiazione che la fanno classificare come una galassia attiva. L'immagine è stata ottenuta col telescopio di 2,2 metri dell'ESO che opera sotto i bui cieli di La Silla in Cile. Il video invece è un montaggio di immagini, con campo progressivamente più ristretto ottenuti con vari telescopi, che ci porta, in un fantastico viaggio, nei pressi di NGC 4945.

Credit: ESO

lunedì 31 agosto 2009

L'ASTROFILO: on line il numero di settembre


E' disponibile on line il numero di settembre della rivista telematica L'Astrofilo, distribuita gratuitamente a tutti coloro che si registrano a questo sito. Il numero di settembre si presenta ricco come sempre, con articoli in grado di rispondere alle attese tanto dei principianti quanto degli astrofili più esperti. In particolare si segnala l'articolo dedicato allo studio delle sorgenti di raggi gamma. Gli autori sono personaggi di spicco del gruppo di ricercatori che gestisce i telescopi MAGIC siti alle Canarie.

domenica 30 agosto 2009

Corsi per Astrofili

Da Pasquale Ago, presidente dell'Associazione Astrofili Aurunci, riceviamo:


Corsi per astrofili:

L'Associazione Astrofili Aurunca, con il patrocinio dell'Unione Astrofili Italiani e dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Sessa Aurunca propone due corsi di astronomia che avranno luogo presso l'Osservatorio Astronomico Aurunco "M. Hack".
Il primo corso sarà dedicato all'astronomia pratica e rivolto a tutti coloro i quali intendono avvicinarsi all'astronomia ed anche agli studenti delle ultime classi degli istituti superiori in cui si studia l'astronomia. Il programma di questo primo corso sarà tarato in modo da consentire una diretta interazione tra i docenti, scelti tra gli astrofili più esperti dell'associazione ed i partecipanti. L'intento è quello di offrire un per-corso condiviso e finalizzato a garantire a tutti i partecipanti un'esperienza gratificante sia sul piano culturale che umano.
Il secondo corso sarà dedicato all'astrofotografia ed è evidentemente rivolto agli astrofili: sia a quelli che sono alla prime armi con la ripresa digitale delle immagini astronomiche e nella gestione della strumentazione necessaria per iniziare questo entusiasmante percorso, sia per gli astrofili più evoluti che vogliono aggiornarsi sulle principali tecniche in uso o anche solo semplicemente scambiarsi esperienze osservative. Un corso dal programma avvincente, nel quale saranno fortemente privilegiati gli argomenti connessi all'acquisizione ed elaborazione delle immagini, con una grandissima attenzione alle prove pratiche sul campo.
Tutti i partecipanti riceveranno materiale utile e la tessera annuale di iscrizione all'associazione.
CORSO DI ASTRONOMIA PRATICA
Sabato 5 e Domenica 6 Settembre 2009
Sabato 5/09
ore 17 - Introduzione all'Astronomia. Panoramica sul Sistema Solare -
Pasquale Ago
ore 18 - La Via Lattea e l'evoluzione delle stelle - Dario Castellano & Carmen Perrella
ore 19 - L'Universo tra passato, presente e futuro - Dario Castellano & Carmen Perrella
ore 21 - Osservazione astronomica (partecipazione libera)
Domenica 6/09
ore 17 - Le coordinate geografiche ed astronomiche - Giovanni Paonessa
ore 18 - Il telescopio e gli altri strumenti astronomici - Giovanni Paonessa
ore 19 - L'osservazione del cielo ed il riconoscimento delle costellazioni -
Pasquale Ago
ore 20 - L'uso del software astronomico - Pasquale Ago
ore 21 - Osservazione astronomica
CORSO DI ASTROFOTOGRAFIA
Sabato 12 e Domenica 13 Settembre 2009
Sabato 12/09
ore 17 - L'Astrofotografia ad alta risoluzione (Sole - Luna - Pianeti) -
Antonello Medugno
ore 18 - L'elaborazione delle immagini in alta risoluzione (RGB e B/N) - Antonello Medugno
ore 19 - L'Astrofotografia con le reflect DSLR (con obiettivi a largo campo) - Luca De Cesare (relatore da confermare)
ore 20 - L'Astrofotografia deep-sky con le camere ccd (camere, autoguide, ruote portafiltri) -
Giovanni Soligo
ore 21 - pausa per una pizza ed a seguire osservazioni astronomiche
Domenica 13/09
ore 17 - L'elaborazione delle immagini deep sky (dark - flat - bias ecc.) -
Antonello Medugno
ore 18 - Lo studio fotometrico delle comete (protocolli CARA Sez. Comete UAI) - Dario Castellano & Carmen Perrella
ore 19 - La ricerca di asteroidi e supernovae extragalattiche - Pasquale Ago
ore 20 - Studio dei transiti dei pianeti extrasolari (protocolli EAN) - Antonello Medugno
ore 21 - pausa per una pizza ed a seguire osservazioni astronomiche
____________________
Tutte le lezioni avranno luogo presso l'Osservatorio Astronomico Aurunco - Agriturismo Cerimunni in località Ponte di Sessa Aurunca (Ce)
I corsi sono a numero chiuso con massimo 25/30 iscritti per corso. Le iscrizioni saranno raccolte in ordine di presentazione e potranno avvenire fino a venerdì 4 settembre per il corso di astronomia pratica e fino a venerdì 11 settembre per il corso di Astrofotografia. E' possibile la partecipazione ad entrambi i corsi.
La quota di iscrizione (che consente la partecipazione ad entrambi i corsi) è pari ad Euro 20,00 per gli studenti (di ogni ordine e grado) ed Euro 40,00 per tutti gli altri e comprende materiale didattico ed un anno di iscrizione all'Associazione Astrofili Aurunca.
I soci dell'Associazione Astrofili Aurunca potranno partecipare ad entrambi i corsi gratuitamente, salvo prenotazione.
Per informazioni, prenotazioni ed iscrizioni tel. 0823-938627